Domenica 4 dicembre scorso, l’elezione referendaria, pur confermando l’esito che tutti i sondaggi da varie settimane prevedevano, ha sorpreso comunque per l’elevata partecipazione (68,48% in Italia e 65,47% considerando anche il voto estero) e l’ampiezza della vittoria del No, che è stata generalizzata, salvo in tre regioni dove il Sì ha vinto per una minima differenza, e con percentuali bulgare in Sicilia e Sardegna, dove peraltro la partecipazione al voto è stata molto più bassa rispetto al resto del Paese.
La partecipazione si è rivelata sorprendente rispetto ai referendum confermativi della riforma del Titolo V del 2001 (quando partecipò solo il 34,05% degli elettori con la vittoria del Sì con il 64,2%) e della seconda parte della Costituzione nel 2006 (la partecipazione fu del 53,84% in Italia e del 52,46% considerando anche il voto all’estero, con una vittoria del No pari al 61,3%). Questo potrebbe derivare da un crescente interesse su tematiche che riguardano il nostro sistema democratico, ma presumibilmente deriva anche da una maggiore volontà e capacità dei partiti e dei movimenti di opinione di mobilitare l’elettorato. Infatti già nel 2006 ci fu una forte mobilitazione del centrosinistra con temi non molto diversi da quelli usati dai contrari in questa campagna, con la sola differenza che non vi era l’obiettivo di far cadere il governo che aveva promosso il referendum in quanto Berlusconi era già stato sconfitto alle politiche di due mesi prima.
Da ciò si evince che proporre riforme costituzionali a maggioranza e sottoporle a referendum non è una strada opportuna da intraprendere. E, a maggior ragione, legare la sorte del proprio governo a ciò si rivela più di un errore politico, quasi un autentico suicidio.
Si badi bene però: cosi come non tutti i Sì sono da considerare un voto politico a favore di Renzi o del Pd, non tutti i voti del No sono stati un voto politico contro Renzi (e a favore dei partiti politici che hanno sostenuto il NO). Significherebbe regalare impropriamente a Beppe Grillo e a Salvini una grande prova di democrazia, come ha sottolineato Massimo Franco sul Corsera il giorno dopo il voto. Ci sono stati infatti elettori del No – e ne conosco molti anche io - che stando al merito, nonostante ci si sia impegnati a spiegare le ragioni della riforma, o l'hanno bocciata o comunque, di fronte a modifiche troppo corpose e difficili da capire nelle conseguenze, nel dubbio hanno preferito non rischiare, optando per tenersi la Costituzione che c'è. Come era già accaduto nel 2006. In un’altra parte rilevante del voto del No si è invece riflessa la rabbia, la protesta e anche la delusione di tante persone che soffrono per la crisi e che non hanno ancora percepito risultati concreti dalle riforme pur messe in campo dal Governo.
Io stessa nel girare durante la campagna referendaria lo avevo sentito: la maggior parte delle persone venute agli incontri promossi per il Sì in cui sono stata invitata non erano mosse da avversione politica a Renzi, eppure in molte mi hanno manifestato un forte disagio, soprattutto nell'ultima settimana e nei territori periferici di provincia. A Vidor (TV), piccolo centro della Marca trevigiana, mi avevano espresso una forte insofferenza per una campagna referendaria troppo lunga e rissosa, per la sovraesposizione mediatica dei leader nei dibattiti televisivi, per i sostenitori del NO che spostavano il tema dal referendum al voto a favore o contro Matteo Renzi, ma anche per gli atteggiamenti dei sostenitori del Sì, a volte percepiti come "ricattatori" per le conseguenze in caso di sconfitta. Qualcuno aveva anche sottolineato come nella fase finale della campagna referendaria si stesse di nuovo da entrambe le parti personalizzando lo scontro quasi che lo stesso premier, che in un primo momento aveva ammesso di aver sbagliato a farlo, volesse massimizzare il risultato in termini personali qualunque fosse l'esito della consultazione. Il che conferma che la gente comune è in grado di capire le cose più di quanto alcuni leader politici e opinionisti pensino e per questo meriterebbe più rispetto. A Ceregnano, paese di poco più di 3.600 abitanti della provincia di Rovigo, alla fine dell'incontro alcuni dei presenti mi avevano rappresentato la loro percezione di grande insicurezza e di costituire un'area depressa sul piano economico, di cui non si occupa né la politica regionale né quella nazionale. Mi aveva colpito in particolare un signore, presente all'incontro insieme al figlio consigliere comunale di opposizione, che ha esordito dicendomi: "Ci avete abbandonato" e poi che era stato molto indeciso se partecipare o meno all'incontro per il timore di lasciare sola in casa la giovane moglie del figlio. Anche a Pianiga (VE) i componenti del locale circolo del Pd, scoraggiati in un territorio difficile governato da decenni dal centrodestra, mi avevano sottolineato la necessità che il fronte del Sì fosse capace di interpretare la rabbia diffusa in ampi strati della popolazione in maggiore difficoltà.
Questo disagio dei territori periferici si è manifestato in modo chiaro nella distribuzione territoriale del voto, come conferma un’analisi pubblicata dal Sole 24 Ore, che trovi a questo link: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-12-06/citta-spaccate-voto-centri-citta-il-si-periferie-il-no-084922.shtml?uuid=ADkZ1D8B&refresh_ce=1. Nel Sud, dal Lazio alla Sicilia, si è registrata la più alta percentuale di No, e cioè il 67,4% contro il 57,3% del Nord. Ed è proprio nelle regioni più periferiche del paese che la percentuale dei No è stata la più alta in assoluto. Per esempio 72,2% in Sardegna e 71,6% in Sicilia. L’importanza del fattore marginalità emerge anche da altri dati. Nelle grandi città, quelle sopra i 100mila abitanti, e nei capoluoghi il Sì va decisamente meglio rispetto ai piccoli centri e ai comuni non capoluogo. Questo è vero soprattutto al Nord.
Sostenere la complessità delle motivazioni del voto referendario non significa negare la indubbia politicizzazione dello stesso: "una volta associata la riforma a Renzi e al suo governo è scattato in tanti elettori un riflesso partigiano. Era difficile evitare questa associazione, ma il premier è stato incauto nel rendere la cosa più facile ai suoi avversari" (così R. D'Alimonte e V. Emanuele a commento dell’analisi citata del Sole 24 ore), caricando la riforma di un giudizio sul Governo, pensando di poter vincere da solo contro tutti, attorniandosi purtroppo di testimonial spesso lontani dalla vita reale della gente. "In conclusione, con il senno di poi si può dire che questo è stato un referendum che difficilmente il Pd poteva vincere. Troppi fattori hanno giocato contro il premier. Ma resta il fatto che 13 milioni di voti sono tanti. E da qui può ripartire la sfida di Renzi" (sempre R. D'Alimonte e V. Emanuele). Decantando prima il bruciore della sconfitta - aggiungo io - ed evitando di ripetere ulteriori azzardi, per esempio affrettandosi alle urne credendo che l’affermazione del Sì al 40% sia tutta ricollegabile alle potenzialità elettorali del Pd e di Matteo Renzi. Secondo i dati raccolti da YouTrend e illustrati mercoledì 7 dicembre scorso durante la trasmissione “L’aria che tira” di LA7 è emerso che il 17% di chi ha votato Sì alla riforma non ha fiducia nel premier uscente.
Sondaggi interessanti anche per la messa in evidenza della diversificazione per fasce d'età e sociali di chi ha votato Sì - che è stato maggioritario solo tra gli over 55 e i pensionati - e chi ha votato No - con percentuali elevatissime tra gli under 34 e gli studenti -. Ecco il prospetto completo:
FASCE ETA’ |
Sì |
NO |
18-34 |
19% |
81% |
35-54 |
33% |
67% |
55-OLTRE |
53% |
47% |
PROFESSIONE |
Sì |
NO |
DIPENDENTI |
34% |
66% |
AUTONOMI |
33% |
67% |
DISOCCUPATI |
36% |
64% |
CASALINGHE |
36% |
64% |
STUDENTI |
21% |
79% |
PENSIONATI |
61% |
39% |
Sembra un dato sorprendente e significativo, ma a ben pensarci anche no. I giovani sono tra coloro che meno di tutti sono rappresentati dai corpi sociali intermedi e le politiche pubbliche, anche alcune di quelle dell'ultima manovra di Bilancio, sono più attente ai temi previdenziali interessanti le fasce dai 55-60 anni in poi, concertati tra governo e sindacati. Lo scrivevo in un post del ottobre scorso, a commento di un articolo di Sergio Rizzo dal titolo profetico - "I giovani (ancora) trascurati" (http://www.corriere.it/opinioni/16_ottobre_13/i-giovani-67e63e40-90b5-11e6-824f-a5f77719a1a0.shtml) -. In una situazione di crescita minima e di debito crescente, le limitate risorse pubbliche disponibili vanno destinate ad aumentare ancora la spesa previdenziale per i pensionati o investite sui problemi drammatici delle giovani generazioni? È una domanda cruciale per il nostro futuro che dovrebbe essere messa al centro di una discussione pubblica consapevole. Credo davvero che ora non possa essere ulteriormente rinviata, né dalla politica, né dal sindacato.
Dal voto, "in sintesi, è arrivato un messaggio di protesta, ma anche di grande responsabilità", che va interpretato "al meglio, senza tentare improbabili rivincite" che rischierebbero di regalare "a chi scommette sul collasso del sistema un risultato che invece puntella la Costituzione e le radici della convivenza" e "non archivia la voglia di cambiare" (così Massimo Franco su Corsera del 5 dicembre scorso). Per questo tutte le forze politiche, non solo il Partito Democratico, dovrebbero fare esercizio di umiltà per rispettare la volontà degli italiani, dimostrando nella situazione attuale un di più di responsabilità a tutela dell’interesse del Paese, mentre invece sembra intenzionate a cominciare una nuova campagna elettorale. Per questo auguro a Paolo Gentiloni di riuscire nell'incarico ricevuto dal Presidente Mattarella, formando un Governo che, marcando anche qualche discontinuità con il precedente per tener conto dell'esito della consultazione referendaria, si occupi non solo della legge elettorale delle due Camere, ma anche di alcuni temi aperti su cui è urgente cercare di dare risposte concrete al disagio espresso dai cittadini nel voto. Mentre Matteo Renzi si occuperà della gestione del partito, anche per evitare che la circostanza di sostenere da soli il peso di un governo di fine legislatura comporti un logoramento a danno del Partito Democratico.
E veniamo al Veneto, la regione con la partecipazione al voto più alta (76,66%) e la vittoria del No più netta tra le regioni del Nord, in particolare in provincia di Treviso e Vicenza, da sempre molto simili per tessuto sociale e produttivo. Come non pensare alla rabbia - amplificata dal web - di oltre 200mila investitori/risparmiatori per la vicenda delle due popolari e di molti piccoli imprenditori, impoveriti dalla crisi di questi anni, con un drammatico bilancio di quasi 250 suicidi ricollegabili alla crisi economica a è partire dal 2008? A questo si è aggiunto il timore di molti che la riforma potesse riportare a Roma troppo potere, ad es. nella sanità, lasciando intatti i privilegi delle regioni speciali confinanti, la paura per i migranti e la percezione di diffusa insicurezza, la sfiducia dei giovani nella politica. Da qui dobbiamo ripartire con una proposta politica credibile, da mettere al centro della discussione del (finalmente) prossimo (spero) congresso regionale. Cominciando a prendere coscienza degli errori fatti, anziché rimuovere le sconfitte.
In un’intervista al Corriere del Veneto del 6 dicembre scorso Luca Zaia ha confermato quanto da tempo vado dicendo, inascoltata, all'interno del Partito Democratico Veneto:
"Qui tutti i governi che bocciano l’autonomia passeranno guai seri... – spiega Zaia -. Ora, prima si fa il referendum, come detto anche dalla Consulta, poi parte la trattativa politica a Roma, qualunque sia il governo in carica. Lo dico a chi medita di candidarsi a premier e venir qui a fare campagna elettorale: per noi al primo posto c’è l’autonomia. Questo vale per il centrosinistra, e vedremo se ha imparato la lezione, ma anche per il centrodestra, che non deve pensare di avere vita facile qui. Se non ci danno l’autonomia passano un guaio, Lega compresa. Lo dico agli amici politici: non guardiamo in faccia a nessuno... Renzi era venuto qui a dire che il referendum per l’autonomia è inutile, a fare comizi e promesse, a firmare patti come certi sindaci della Prima Repubblica che asfaltavano le strade alla vigilia delle elezioni. Ha preso i veneti per degli sprovveduti. Eppure è una persona intelligente... Credo abbia avuto dei pessimi consiglieri che l’hanno portato fuori strada".
Purtroppo questo non sembra sia stato ancora compreso dalla gran parte della dirigenza regionale del Partito Democratico, ed in particolare dai consiglieri regionali, che hanno addirittura presentato, dopo l'esito chiarissimo delle urne, un emendamento al disegno di legge del Bilancio regionale per sopprimere la copertura finanziaria della consultazione referendaria sull’Autonomia del prossimo anno, un errore grave che il PD Veneto continuerà a pagare restando minoritario in questa regione se non ci sarà nel prossimo congresso una presa di coscienza forte da parte degli iscritti della necessità di una profonda discontinuità nella linea politica che ci ha visti perdere malamente alle ultime regionali ed amministrative, ed ora registrare il peggior risultato del Sì al Nord sul referendum.
In queste due interviste della scorsa settimana al Tg di Rete Veneta ho cercato di spiegare perché tutti gli schieramenti politici del Veneto dovrebbero essere compatti sulla condivisione dell'Autonomia come valore della nostra comunità. Il referendum del prossimo anno è l'occasione di unire i veneti, senza che vi sia un 'capopartito' ad intestarsi questa battaglia che al contrario, se personalizzata, rischia di comprometterne il risultato. Ed il voto di domenica scorsa ha molto da insegnarci su questo!
Intervista a ReteVeneta del 5 dicembre scorso:https://m.youtube.com/watch?v=aeuhOswY0_Q
Intervista a ReteVeneta del 10 dicembre scorso: https://youtu.be/vddSfhUOPuE