Devo essermi persa qualcosa, mi sono detta giovedì 16 marzo scorso, quando diversi amici mi hanno scritto o messaggiato indignati per l'esito del voto dell'Assemblea del Senato che ha respinto la proposta di delibera della Giunta delle immunità sulla decadenza del senatore Minzolini: che è accaduto di nuovo dal novembre 2012, quando in Parlamento votammo quasi all'unanimità la legge Severino introducendo l’istituto dell’incandidabilità, anche sopraggiunta, per tutti i parlamentari colpiti da sentenza definitiva di condanna superiore ai due anni di pena? È evidente che questo voto è sembrato ai cittadini come un colpo di spugna della ‘casta’, che ha votato contro l’applicazione delle stesse norme approvate dal Senato in veste di legislatore cinque anni fa. Un corto circuito istituzionale che ha dato un ulteriore duro colpo alla credibilità della politica e delle istituzioni.
Perché non mi convincono le ragioni dei senatori che hanno votato contro la decadenza di Augusto Minzolini da parlamentare?
Chi è condannato definitivamente a più di due anni di carcere per reati contro la pubblica amministrazione, per effetto della legge Severino, perde i diritti politici per almeno sei anni, e decade da ogni carica elettiva. La Costituzione prevede però che, per i membri delle Camere, solo esse possono decidere di quelli che l'articolo 66 della Costituzione chiama "titoli di ammissione". Si tratta sia degli esiti delle elezioni (esser stati effettivamente eletti, ed in modo incontestato), sia dei requisiti necessari per l'elezione, quali essere cittadini italiani, avere l'età minima stabilita dalla legge, godere dei diritti politici, cioè poter votare e poter essere eletti. Essendo anche una sentenza che priva il parlamentare dei diritti politici un atto che cancella un "titolo di ammissione", è quindi la Camera che deve giudicarlo.
Ebbene, il Senato ha deciso a maggioranza, con vari e controversi argomenti, che i processi penali che riguardano Minzolini non si sono svolti correttamente. E quindi che la sentenza che gli toglie i diritti politici (e lo farebbe decadere dalla carica di senatore) non è applicabile. Creando così un vero e proprio corto circuito del sistema.
Alcuni senatori sostengono che, poiché la Costituzione attribuisce l'ultima parola alle Camere in questa materia, esse non possono essere delle semplici "passacarte". Dall'altra parte è giusto ricordare che nessuna disposizione costituzionale prevede un quarto grado di giudizio per i parlamentari e che difficilmente si può sostenere che il costituente, scrivendo l'articolo 66, pensasse che il Parlamento si trasformasse in un giudice che fa il processo ai processi. Paradosso nel paradosso, lo stesso Senato che - interrompendo oltre sessanta anni di tradizione - in questa legislatura si spoglia volontariamente del potere di sollevare la questione di legittimità costituzionale quando decide della permanenza in carica dei suoi membri, oggi sostiene (a maggioranza) che Minzolini deve rimanere in carica anche perché la Giunta delle elezioni di Palazzo Madama non ha potuto far valutare le legge Severino né alla Corte Costituzionale, né alla Corte Europea dei diritti dell'uomo.
Al di là del caso concreto, è evidente il rischio del discredito che nasce da decisioni percepite come partigiane su casi in cui l'opinione pubblica si aspetta che le Camere agiscano come un giudice, cioè applicando la legge ed imparzialmente.
Per questo ho aderito all’iniziativa del collega Francesco Sanna, che per uscire dal possibile conflitto tra magistratura e Parlamento ha proposto: 1) il cambiamento dei meccanismi di funzionamento delle Giunte di Camera e Senato che preparano le decisioni, rendendo pubbliche le loro sedute ed eleggendo i loro membri tra i parlamentari con la presentazione di curriculum che attestino le loro competenze giuridiche e non più designati ai Presidenti delle Camere dai gruppi parlamentari; 2) un disegno di legge costituzionale per superare il sistema della autodichia integrale in materia di eleggibilità (quindi anche della valutazione del conflitto di interessi) del Parlamento, oggi unico giudice dei suoi componenti, modificando l’art. 66 della nostra Costituzione.
Riprendendo alcune indicazioni di Mortati nell’Assemblea costituente, ed ispirandosi ad esperienze di altre democrazie europee, il collega Sanna propone che sia chi è oggetto del giudizio, sia un decimo dei membri di una Camera possano ricorrere alla Corte Costituzionale per la revisione di una decisione sulla eleggibilità o sulla permanenza in carica di un parlamentare. La Corte potrebbe essere inoltre direttamente investita della responsabilità se il Parlamento omettesse o ritardasse di assumere entro tempi ragionevoli le sue decisioni.
Sarebbe una riforma da fare nel tempo restante della legislatura di non piccolo aiuto alla ripresa di credibilità del Parlamento, per evitare che l’autodichia delle Camere si trasformi in un quarto grado del giudizio, che apparirebbe come un privilegio previsto solo a favore dei parlamentari.
A questo link la proposta di legge del collega Sanna: