Dolori all’addome e alla zona pelvica, mal di testa e mal di schiena: è la “dismenorrea”, un disturbo che, secondo le ultime stime, colpisce tra il 60 e il 90 percento delle donne durante il ciclo mestruale e che può rendere difficile portare avanti normali mansioni lavorative. Un’imminente approvazione di una norma ad hoc, che venga in aiuto delle tante italiane afflitte dalla patologia? E’ lontana.
La proposta di legge, che prevede il «concedo mestruale» per chi soffre di mestruazione dolorosa, in effetti c’è ed è stata presentata quasi un anno fa, ad aprile del 2016, da quattro deputate del Partito Democratico. Ma per ora è ferma in commissione lavoro alla Camera e non sembra verrà discussa a breve. La norma permetterebbe alle donne di assentarsi dall’impiego per tre giorni al mese, nel periodo di picco del ciclo, senza doversi mettere in malattia o in ferie. «Durante l’astensione dal lavoro» si legge nel testo della proposta «alla lavoratrice sono dovute una contribuzione piena e un’indennità pari al cento per cento della retribuzione giornaliera». Niente decurtazioni dello stipendio, quindi, secondo la legge, che è destinata «alle lavoratrici con contratti di lavoro subordinato o parasubordinato, a tempo pieno o parziale, a tempo indeterminato o determinato ovvero a progetto». Per usufruire del congedo, alla donna basterebbe presentare al datore di lavoro un certificato medico specialistico, da rinnovare ogni nuovo anno, che attesti l’effettiva presenza del disturbo.
Già ad agosto, quando si è cominciato a parlare dell’ipotesi, c’è stata una levata di scudi da più fronti. La presidente di Unindustria Treviso, Maria Cristina Piovesana, ha definito la proposta «inappropriata e inopportuna dal punto di vista delle imprese, ma contraria anche all’interesse delle donne». Spiega una delle firmatarie della legge, Simonetta Rubinato, deputata: «E’ un tema molto sensibile, che divide le stesse donne. Io l’avevo inteso in un’ottica innovativa: non c’è solo la questione della condizione della donna, che comunque è fatta in modo diverso dall’uomo, il che non può non avere delle ricadute. C’è anche il tema della produttività sul lavoro».
Fondamentale è fare in modo che la misura sia economicamente sostenibile, sia per le imprese, sia per la finanza pubblica. Per Rubinato «si potrebbe partire su base volontaria con un gruppo di aziende che siano disponibili a una fase sperimentale, anche prevedendo che le ore di assenza dal lavoro, che possono essere al massimo di tre giorni e comunque su certificazione medica specifica per evitare abusi e furberie, possano essere recuperate in seguito, quando la donna ritorna in piena forma ed è molto più produttiva».
Certo è che si tratterebbe di una piccola rivoluzione, con la quale l’Italia si adeguerebbe a una tendenza che all’estero si sta affermando da anni. Dalle grandi multinazionali, come la Nike, che già dieci anni fa ha inserito il congedo mestruale nel proprio codice di condotta, a molti Paesi dell’estremo oriente, dove sopravvive la credenza secondo la quale il mancato riposo durante il ciclo possa provocare parti problematici e dove il congedo è già in vigore da decenni. Capofila è stato il Giappone nel lontano 1947 – quando alcune aziende cominciarono ad adottare il «seirikyuuka»– seguìto un anno dopo dall’Indonesia. Più recentemente, il congedo per le donne che soffrono di dismenorrea è entrato in vigore anche in Corea del Sud e a Taiwan.