Nel processo di riforma della nostra Carta fondamentale, se è da salutare con grande favore lo sforzo di dare finalmente al Senato la funzione di strumento per la cooperazione, nella fase legislativa, delle istituzioni locali con le istituzioni nazionali, dall’altro non si può sottacere che la riforma del Titolo V opera per le regioni ordinarie un processo di riaccentramento delle competenze allo Stato, non distinguendo quelle che hanno dimostrato capacità di buon governo, ampliandone così il divario con quelle speciali.
Certo molte Regioni hanno copiato i peggiori difetti del centralismo, riducendosi a enti decentrati di spesa da cui lo Stato non ha preteso pari responsabilità, staccandosi dalla società sino ad arrivare alle ultime vicende di gravissima mala politica e corruzione. Ma la soluzione è il riaccentramento di materie, funzioni e risorse? Io credo di no.
Primo: perché il centralismo non è sinonimo di efficienza, così come decentramento non è sinonimo di inefficienza. Qualche mese fa il Viceministro Morando, che non è un tifoso regionalista, ha fatto questa battuta fulminante: se compariamo a livello internazionale la sanità, che è gestita dalle regioni, è un'eccellenza mondiale, se confrontiamo invece la giustizia, che è una funzione prettamente ed esclusivamente statale, è un fallimento mondiale.
Secondo: perché le Regioni, secondo la nostra Costituzione e il principio di sussidiarietà europeo, sono in grado di esercitare meglio alcune competenze perché sono più vicine ai bisogni dei territori e al controllo democratico dei cittadini.
Terzo: perché l'assetto regionalista è l'ordinamento più consono ad una comunità politica nazionale organizzata nell'ambito di un processo di integrazione europea e di un sistema di economia internazionalizzata nel quale i compiti dello Stato crescono sul versante esterno delle negoziazioni internazionali ed europee e si riducono su quello interno, come ci insegna l'esperienza di altri paesi europei.
Ciò vale tanto più in Italia, un Paese il cui fattore competitivo più tipico ed espressivo è l'eccezionale ricchezza e varietà dei suoi territori, che hanno bisogno di governance regionali istituzionali 'differenziate' e in questo senso 'speciali'. Secondo Giuseppe De Rita, grande conoscitore della realtà italiana, il "regionalismo delle uniformità" e della mera delega di spesa senza responsabilità che abbiamo avuto in Italia ha prodotto poche ricette davvero ritagliate sulle diverse realtà locali, con il risultato, tra l'altro, di ampliare i divari tra i territori. E anche Sabino Cassese da ultimo è giunto a questa conclusione: "dovremmo forse prendere atto che regionalismo e autonomie locali comportano differenziazione per zone, anche in termini più radicali cioè differenziando i gradi dell'autonomia". Costituzionalisti come Roberto Bin e Gian Candido de Martin hanno auspicato una riflessione sul concetto di specialità, nel senso che "tocca allo Stato riqualificare il suo modo di funzionare, riconoscendo un certo grado di specialità anche alle altre regioni".
'Specialità' che intesa in questo senso è tanto più necessaria al Veneto, perché la sua storia dimostra, al di là delle vicende recenti di una cattiva classe dirigente regionale, come la società veneta sia capace di cultura collettiva di autogoverno e di coesione sociale e che, dotata di strumenti di maggiore autonomia, può trainare lo sviluppo nell'interesse di tutto il Paese. Una cultura sociale ed economica della sussidiarietà che, però, è stata frustrata nella sua aspirazione autonomista da una classe politica nazionale e regionale di centrodestra che l'ha promessa per anni, ma che è stata incapace di attuarla.
Questa frustrazione e distacco nei confronti dello Stato, ma anche della politica regionale, si sta manifestando in Veneto in forme più acute che in altri territori: decine di comuni che chiedono di passare alle regioni confinanti, piccole imprese gravate di oneri che ne soffocano la competitività che decidono di trasferirsi, movimenti e referendum che propugnano l'indipendenza, richiesta della specialità da ultimo sollevata da parte di tutto il direttivo dell'associazione dei sindaci del Veneto. Questi segnali non vanno sottovalutati, come ha sottolineato Ilvo Diamanti: "la rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria". Occorre dare con urgenza una risposta politica, quella dell'autonomia e dell'autogoverno.
Ecco le ragioni dei miei due emendamenti all'art. 116 della Costituzione (clicca qui per leggerli): entrambi volti a riconoscere al Veneto questa 'specialità', uno attraverso il rafforzamento dello strumento generale dell'autonomia differenziata del terzo comma (che c'è per merito del centrosinistra), l'altro attraverso lo strumento specifico dell'attribuzione, nel primo comma, alla nostra regione dello statuto autonomo attraverso una legge costituzionale ad hoc. Strumenti volti ad evitare che il disagio del Veneto possa aumentare dopo questa riforma, considerato che la nuova clausola di supremazia consentirà allo Stato di avocare in via generale a sé qualsiasi materia, senza distinzioni tra regione e regione, e che la nuova competenza esclusiva e piena dello Stato in materia di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario avrà l'effetto di eliminare la già contenuta autonomia della nostra regione in materia fiscale. Mentre le regioni speciali con noi confinanti possono già ora attuare politiche fiscali a a sostegno dei propri territori e delle proprie imprese.
Martedì sera sono quindi intervenuta in Aula, durante la discussione dell’art. 30 della riforma costituzionale, per spiegarne il senso. Li ho quindi ritirati, visto che non c’erano le condizioni politiche per approvarli, su richiesta della Presidenza del Gruppo del Pd, ma essendo stati fatti propri da altri gruppi ho espresso il mio voto favorevole agli stessi, ribadendo che quello della autonomia speciale del Veneto è un tema politico a cui bisognerà comunque dare una risposta, come ci hanno chiesto i sindaci attraverso l’appello inviato a tutti i parlamentari dall’Anci del Veneto. Qui trovi i link al video dei miei due interventi (clicca qui), oltre al link al resoconto della discussione in Assemblea (clicca qui).
Da molti colleghi (sia dal relatore Fiano del Pd, che da altri gruppi), ho ricevuto un particolare apprezzamento per il mio intervento sull'autonomia differenziata, mentre sulla stampa ho letto con sorpresa l'attacco personale alla sottoscritta da parte del segretario regionale veneto del Pd (clicca qui) cui ho ritenuto di non replicare per il bene del partito. È noto a tutti che ho condotto la mia battaglia per l'autonomia in modo aperto e leale, ponendola come punto qualificante del mio programma delle primarie, fatto proprio poi anche da Alessandra Moretti.
Credo che sia tempo che si apra una discussione finalmente franca nel Partito Democratico veneto sull'autonomia, anziché ogni volta accusare chi ne parla di voler inseguire la Lega Nord, che peraltro si è dimostrata incapace di attuarla. L'autonomismo non è un tema ideologico, è uno strumento di democrazia e governo virtuoso dei territori, che in molti Paesi è patrimonio proprio del centrosinistra e dei progressisti.
La vera domanda alla vigilia delle prossime elezioni regionali è: la classe politica dirigente del Veneto sarà all'altezza di questa sfida, rappresentando degnamente la vitalità della società e dell'economia locale, abbandonando le baruffe chiozzotte e la sterile pratica della protesta verso lo Stato?
LEGGI TUTTI GLI EMENDAMENTI CHE HO PRESENTATO IN AULA
LEGGI L'ARTICOLO DE IL GAZZETTINO 'L'AUTONOMIA NAUFRAGA A ROMA' - 29 GENNAIO 2015