Giovedì scorso,
il Corriere della Sera ha pubblicato il testo integrale della lettera che il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, e il suo successore, Mario Draghi, il 5 agosto scorso avevano inviato al Presidente del Consiglio Berlusconi. Finalmente si fa luce sui contenuti di un documento che era rimasto fino ad oggi riservato e che era stato da molti interpretato come un ‘commissariamento’ da parte della Banca europea di un Governo inadempiente nell’assumere misure drastiche per far fronte alla crisi dei mercati internazionali e all’ampliamento del differenziale tra i tassi sui titoli italiani e quelli tedeschi. Come è noto, dopo il ‘diktat’ della Bce, il ministro Tremonti, alla vigilia di Ferragosto, è stato costretto ad approntare la quarta manovra economica, poi approvata con la fiducia in Parlamento, che prevede l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013. Una manovra non solo iniqua, ma anche inefficace, perché è assai probabile che il pareggio non possa essere raggiunto nel termine previsto nonostante la cura da cavallo inflitta al Paese.
Le raccomandazioni contenute nella lettera, che restano pertanto di attualità, sono assai impegnative perché intervengono su pensioni di anzianità e stipendi degli impiegati pubblici, liberalizzazioni dei servizi pubblici e privatizzazioni su larga scala, oltre che in materia di regole su assunzioni e licenziamenti. Un ‘programma di governo’ che metterebbe a dura prova qualsiasi maggioranza. E che suona come un monito anche per le forze politiche che oggi stanno all’opposizione e che mirano a diventare un’alternativa di governo.
La mia opinione è che non possiamo risolvere la situazione in cui ci troviamo se l’Unione Europea non cambia la sua strategia: le sole misure di austerità rischiano con ogni probabilità di portarci verso la stagnazione e la recessione. Finora per la zona euro la priorità è stata ridurre drasticamente il deficit di bilancio con aumenti delle tasse e tagli alla spesa. Ma questa enorme contrazione fiscale collettiva è controproducente: come ha spiegato un editoriale dell’Economist, “spingere economie già indebolite verso la recessione aumenta solo la preoccupazione, sia per il debito, sia per le banche europee. E i tagli al bilancio non eliminano la vera causa del disastro, che è la perdita di credibilità”. Insieme a politiche di rigore nella finanza pubblica, occorre puntare sulla crescita, con riforme sì, ma anche con investimenti mirati. Purtroppo manca all’Italia in questo momento una rappresentanza di governo credibile ed autorevole al tavolo in cui si prendono le decisioni strategiche per il futuro.
In ogni caso, tanto più se vogliamo tornare al governo del Paese, prima o poi dovremo fare i conti con gli altri contenuti della lettera della BCE. E allora come Pd dovremo riconoscere innanzi tutto che un capitalismo selvaggio ed irresponsabile ha fallito, perché la prospettiva di un profitto illimitato incoraggia comportamenti sbagliati o addirittura criminali: un capitalismo virtuoso non può esistere senza regole, limiti ed un’impalcatura solida di valori che permetta al libero mercato di funzionare a dovere. Occorre allora che la politica (la buona politica) abbia la forza di dettare le regole che lo indirizzino al bene comune. E poiché oggi il mondo è cambiato occorre il coraggio di mettere in campo riforme innovative, senza abdicare ai valori fondamentali della nostra Costituzione. Per esempio, visto che la Bce richiede di accrescere la concorrenza nei mercati soprattutto dei servizi, perché non proponiamo subito una riforma del mercato televisivo per risolvere l’enorme conflitto di interessi che pende sul capo del nostro ‘liberale’ presidente del consiglio dei ministri, ma anche la vergognosa spartizione lottizzatoria della RAI? Ancora: visto che la Bce chiede di rivedere profondamente le norme sulle assunzioni e sui licenziamenti, perché non avviare una riforma del mercato del lavoro improntata ad un vero sistema di flexicurity? Mi chiedo se abbia senso difendere l’attuale mercato del lavoro iniquamente duale, soprattutto a danno dei più giovani, tanto più che la conservazione per una parte dei lavoratori di una ‘rigidità’ di tutela del posto di lavoro è destinata ad essere vanificata se - nell’era della globalizzazione – la loro azienda fallisce o comunque esce dal mercato. Non sarebbe più giusto e più conveniente scambiare una maggiore flessibilità in tema di cessazione del rapporto di lavoro in cambio del versamento da parte delle imprese di maggiori contributi per attuare finalmente un sistema universale di ammortizzatori sociali che tuteli tutti coloro che momentaneamente sono espulsi dal mondo del lavoro, abbandonando i riti dei tavoli al Ministero del Lavoro aperti per le sole crisi delle grandi aziende ? Una modifica, non lo smantellamento, delle regole sul licenziamento che le avvicinassero a quelle vigenti ad es. in Germania, potrebbe essere accettabile se preceduta dall’approntamento di una rete di protezione universale di reddito e di servizi per tutti quelli che perdono il posto di lavoro. Naturalmente con tutte le garanzie necessarie ad evitare che la flessibilità diventi sfruttamento o maggiore precarietà a danno dei lavoratori. Vogliamo aprire una discussione su questo, come su altri temi, in modo da governarli secondo i nostri valori costituzionali, prima che ci vengano imposte misure sommarie dall’esterno come contropartita all’acquisto dei nostri titoli di stato?