Quello che ci aspettavamo dalla Direzione del Pd e che non è avvenuto…

16 gennaio 2011

Cari amici ed amiche,

ritengo giusto rendervi conto della mia partecipazione alla direzione nazionale di giovedì 13 u.s. Poiché si tratta di un'assise fin troppo numerosa e il dibattito è giocoforza contenuto in un tempo limitato (dalle ore 10.30 alle 18 circa, entro il quale ampio spazio ha ovviamente  la relazione iniziale del segretario e le sue conclusioni), non essendo potuta intervenire, svolgo qui di seguito la mia riflessione, su cui sarò lieta di eventuali vostre osservazioni.

Eravamo arrivati a questa direzione abbastanza in difficoltà, dopo che il 14 dicembre - con la sia pure risicata conferma della fiducia della Camera al Governo - era fallita l'ipotesi perseguita dalla segreteria della spallata al Premier e della costituzione di un governo di responsabilità.

Ne siamo usciti senza aver fatto chiarezza su quello che il PD effettivamente vuole essere, sulle linee essenziali di un progetto di governo e sulla strategia più utile per essere un'alternativa credibile. In compenso abbiamo preso atto che la stragrande maggioranza dei dirigenti Pd è soddisfatta di quello che stiamo facendo e si riconosce nella linea adottata dal segretario, peraltro votando una relazione elusiva e generica, dopo che esponenti autorevoli della maggioranza interna hanno espresso nel dibattito posizioni opposte su temi cruciali (ad es. Fassino e Fassina sulla vicenda Fiat; Franceschini e Letta sull'alleanza con Vendola). C'è poi la minoranza - della quale faccio parte anch'io -, ridottasi rispetto alle primarie del 2009, visto che dirigenti dell'Area Dem come Franceschini, Marini e Fassino sono passati in maggioranza senza che sia cambiata la linea politica della segretaria. Minoranza che non ha partecipato al plebiscito per tenere aperte alcune domande - in coerenza con l'ispirazione originaria del Pd -, delle quali la principale è la seguente: la vocazione maggioritaria del Pd di interessare anche simpatizzanti ed elettori delusi da Berlusconi è ancora in piedi o ormai stiamo accontentandoci di compattare i militanti? Dalla risposta a questa domanda derivano infatti una serie di scelte fondamentali per la nostra azione politica.

Purtroppo la Direzione non e' riuscita a mettere dei punti fermi sull'azione politica e sull'identità del Pd. Mi aspettavo che nella relazione del segretario fosse contenuto un giudizio sullo svolgimento della linea lungo la quale ha condotto sin qui il partito, a partire dalla sua riproposizione dell'idea di un Nuovo Ulivo che si allea con i centristi. Pur all'interno di una relazione ampia e complessa, questo giudizio ed un chiarimento sulla linea politica non sono emersi. A dimostrazione della complessità della situazione interna, si è ascoltata l'appassionata difesa di Franceschini della necessità di allearsi oltre che con Sel e Idv, anche con il Terzo Polo: e pensare che Dario era stato nelle primarie il principale oppositore della strategia dalemiana, fondata sulla priorità delle alleanze rispetto al programma, proprio sulla base della c.d. vocazione maggioritaria! Purtroppo nel partito, tanto più dopo che si è concretizzato il rischio di un ricorso anticipato alle urne, stanno prevalendo logiche oligarchiche  ed accordi per la gestione del potere, più che il confronto plurale e la competizione sulle idee e i contenuti.

Perciò, come bene ha sintetizzato Arturo Parisi, "lo svolgimento della direzione ha reso ancora una volta impossibile ogni vera decisione fondata su una nitida linea politica, costringendo al massimo a conte fondate sulla fedeltà personale. Il dibattito è quindi evidentemente destinato a continuare all'esterno degli organi statutari con libertà sui media come è peraltro finora accaduto".

Come esponenti di Movimento Democratico avevamo chiesto che il confronto nel partito proseguisse senza polemiche e senza forzature, ma la segreteria ha deciso di sottoporre al voto finale la relazione di Bersani. La ricerca spasmodica della 'conta' - richiesta soprattutto da Franceschini, mentre Letta si era sforzato di trovare una soluzione unitaria - è un errore, perché porta alla drammatizzazione del confronto, amplificando come ‘divisioni' (questa è la lettura che poi emerge sui media e che tanta ansia crea nella nostra base) le legittime differenze sui temi che è normale ci siano all'interno di un grande partito plurale, che deve essere capace di garantire all'interno un dibattito aperto e democratico senza farne un dramma, ma anzi una ricchezza del partito. Da parte nostra abbiamo spiegato lealmente le ragioni dell'insoddisfazione sulla relazione di Bersani: avremmo voluto che la Direzione avesse aperto una fase nuova, si fosse interrogata sul perché il Pd non sia ancora percepito dagli elettori non militanti come un'alternativa credibile, e avesse preso atto che e' fallita la linea dell'inseguimento delle alleanze di altre sigle, da Vendola a Fini, passando per Casini. Non chiedevamo un 'mea culpa', ma almeno una presa d'atto. Così non é stato. Per questo abbiamo ritenuto coerente non partecipare al voto, senza alcun spirito polemico, semplicemente ratificando la nostra posizione coerente di minoranza.

Qualcuno ha bollato il nostro dissenso come "risentimento", il che è ridicolo: "risentimento" è la medesima parola utilizzata da Berlusconi per liquidare il dissenso di Fini, che invece poneva questioni politiche cruciali per l'identità del Pdl, e mi auguro sinceramente che il Pd non commetta lo stesso errore di sottovalutarle. Né si può pensare di risolvere il confronto con gli inviti all'unità o meglio all'unanimismo, perché gli organismi di partito sono i luoghi in cui confrontarsi con franchezza e non le occasioni per nascondere la polvere sotto al tappeto (come accadeva ad esempio durante la gestione Veltroni). In fondo dietro una gestione del partito infastidita dalle posizioni differenti e che bolla chi non si adegua con la maggioranza come chi rema contro la ditta, non vi è lo stesso clima autoritario che si respira nella società italiana, sia nelle relazioni industriali (vedi l'aut aut di Marchionne) che nel mondo politico (la direzione aziendale del partito fatta da Berlusconi)?

Dove sta scritto che chi si adegua alla linea della segreteria vuole più bene al partito di chi la richiama al cambiamento di rotta, ritenendo che si stiano commettendo degli errori portando il Pd alla risulta di un'alleanza con Sel e Idv (errori confermati dagli avvenimenti succedutisi dall'estate ad oggi)?

Avete letto l'articolo scritto lunedì scorso sull'Unità da Francesco Piccolo? Ve lo trascrivo, perché può essere utile a riportare pacatezza nella riflessione.

"Paradosso democratico.  Il Pd ha una vocazione maggioritaria. Vale a dire che è nato per governare. È moderato, responsabile, alla ricerca di soluzioni concrete. Stando all'opposizione, tutte queste caratteristiche lo debilitano. Altri partiti più piccoli sono nati per non governare: quelli più a sinistra per opporsi su tutto, quelli più al centro per fare l'ago della bilancia per tutti. Stando all'opposizione, tutte queste caratteristiche li rafforzano. Qui sta il punto non risolto del Pd: è molte volte più grande degli altri; quindi avrebbe il compito di scegliere un candidato, fare un progetto di governo e poi vedere se gli altri aderiscono (oppure una nuova proposta di legge elettorale, e poi vedere se altri sono d'accordo). Ma gli altri hanno dalla loro che se le cose rimangono così, è meglio. E quindi possono ottenere molto di più delle forze che rappresentano. Questo è il motivo principale per cui il Pd nei fatti non fa proposte concrete. Non può forzare, perché ogni volta che forza gli rispondono: no. Eppure, non c'è un altro modo di uscire dall'impasse che forzare i tempi e i modi. Non c'è altro modo che comportarsi da vero partito a vocazione maggioritaria. Se il Pd non può governare (subito) questo paese, si concentri a immaginare un modo per rappresentarne una parte viva e attraente. Altri pian piano si aggregheranno. E un giorno, forse, un progetto concreto della sua parte andrà al governo. E un altro giorno ancora, forse, lo realizzerà. Non è una scorciatoia. Ma non ci sono scorciatoie".

Quello che scrive Piccolo, che è poi quello che penso anch'io, conferma che le critiche della nostra minoranza sono segno che vogliamo anche noi bene al Pd. Per questo il nostro impegno è continuare a discutere e a confrontarci sulle proposte da fare al Paese: la prima occasione sarà proprio la Convention nazionale di Movimento Democratico del 22 gennaio prossimo al Lingotto di Torino, dove ci auguriamo che sia presente anche Pierluigi Bersani. Lo stesso Vicesegretario Enrico Letta ha dichiarato in direzione di volerci essere e di essere convinto che sarà un avvenimento utile per tutto il partito.

Per questo - se si vuole bene al Pd - è necessario cominciare a gestire mediaticamente in modo migliore il confronto all'interno, sia per non dare il fianco alle critiche interne per cui chi dissente mina l'immagine del partito, sia per non far apparire il Pd disinteressato ai problemi del Paese e affannato solo a risolvere le proprie beghe interne.

Ma veniamo ai principali temi trattati in Direzione.

 

LE ALLEANZE

Il segretario (e più ancora Franceschini, diversamente da quanto diceva quand'era minoranza) ha ribadito la linea delle alleanze più ampie possibili, da Sel al Terzo Polo di Casini, Rutelli e Fini. E' poi intervenuto il vicesegretario Letta dichiarando che lui con Vendola a capo della coalizione non ci sta. Noi abbiamo ribadito che è sbagliato spostare il baricentro del partito a sinistra confidando poi nell'alleanza con Casini per recuperare il voto moderato. In questo modo si abbandona definitivamente la vocazione maggioritaria su cui il Partito democratico è nato e ci si avvia sulla strada suicida del caravanserraglio anti-berlusconiano, già sconfitto peraltro il 14 dicembre in Aula, senza contare che Casini e Fini hanno già declinato l'invito, avendo in mente ben altro progetto di ricomposizione del centrodestra, progetto che riceve un inaspettato aiuto proprio dalla strategia dalemiana e che subirebbe invece un contraccolpo se l'azione politica del Pd si concretizzasse in un progetto politico riformista ed innovativo (oltre i conservatorismi di destra e di sinistra) sulle sfide che pone al Paese la globalizzazione, rivolto direttamente alla maggioranza degli elettori - e in particolare ai ceti medi e popolari - e non ai rappresentanti del ceto politico.

 

LE PRIMARIE

Dopo aver promesso a Vendola le primarie, il segretario Bersani prova sostanzialmente a fare marcia indietro affermando che, poiché lo strumento ha mostrato una sua vitalità, ma ha anche prodotto dei problemi, vanno riformate per preservarle. La tentazione evidente è di non farle per il candidato a premier, per fare in cambio quelle per i parlamentari (il contrario di come sono nate, vedi i casi di Prodi e Veltroni). In questo modo, oltre a dare l'impressione che il Pd ha paura di perdere il confronto sulla leadership, si rischia di svilire questo straordinario strumento di partecipazione democratica utilizzandolo soltanto quando è conveniente. Sulle primarie, peraltro, io credo vada fatta una riflessione di fondo: le primarie sono tali se aperte agli elettori e non solo agli iscritti, ma perché siano davvero aperte occorre che il Partito Democratico sia percepito come un'alternativa da un'ampia fascia di elettorato, non solo dai militanti e dai simpatizzanti. Le primarie, in altre parole, hanno senso e funzionano se il Pd è a trazione maggioritaria, non certo se viene percepito come il recinto di uno dei partiti fondatori di ispirazione di sinistra. In caso contrario, se il nostro bacino elettorale di riferimento si riduce a una parte (per di più minoritaria) dello schieramento politico, le primarie rischiano di ridurre il Pd alla marginalità ed a ricreare gli incidenti già occorsi in Puglia o a Milano, il che finirà con il delegittimare lo strumento e con il consegnare definitivamente il partito  alle oligarchie e agli apparati.

 

LA VICENDA FIAT

Mi soffermo maggiormente su questo punto, perché è più di stretta attualità visto il referendum appena svoltosi tra i lavoratori. Bersani ha affermato nel suo intervento che il referendum di Mirafiori è una scelta drammatica caricata solo sulle spalle degli operai della Fiat. Fassino, che pure è passato in maggioranza, ha detto di essere per il sì all'investimento e per il sì al referendum, che Marchionne pone una sfida alla politica sulla competitività del Paese e che la Fiom sta sbagliando a non voler fare i conti con la realtà, mentre il responsabile economico del partito, Fassina, ha messo in croce l'amministratore delegato Marchionne affermando che l'accordo viola diritti e tutele fondamentali dei lavoratori. Noi di Modem eravamo d'accordo con la posizione di Fassino, in dissenso con quella di Fassina: abbiamo evidenziato che il partito deve avere una linea chiara ed univoca su temi come questoi e che la scelta di non prendere posizione per non far dispiacere alla Fiom (Cgil) non era affatto condivisa. Al termine della direzione, Bersani ha peraltro fatto su questo punto una correzione di rotta, dichiarando di condividere la posizione espressa da Ichino. Resta il fatto che molti hanno percepito che il Pd non è riuscito a esprimere una posizione univoca su un tema cruciale non solo per i lavoratori, ma anche per il futuro del Paese. Dopo il risultato del referendum (positivo perchè impegna la Fiat a fare l'investimento e dunque da qui in avanti ai tavoli si discuterà di occupazione), rilevo per inciso che ora va affrontato con urgenza il tema della partecipazione dei lavoratori alle scelte dell'imprese (considerata la rilevante percentuale dei no) ed il tema di come garantire insieme la piena rappresentanza sindacale dei lavoratori e la governabilità degli impianti da parte di una grande azienda.

Personalmente ho sempre ritenuto che la questione non è se stare dalla parte di Marchionne (che fa il manager e non il Presidente del Consiglio) o dalla parte della Fiom, ma fare i conti con la realtà del  mondo attuale, ovvero con il fatto che oggi le imprese come la Fiat (e quindi inevitabilmente anche i lavoratori) sono chiamate a confrontarsi in una competizione sempre più globale partendo dalla posizione di scarsa crescita e produttività della nostra economia e dalle carenze strutturali del nostro sistema Paese. La classe politica dovrebbe mettere al primo posto dell'Agenda Italia questo tema e operare per creare le condizioni che attraggano investimenti nel nostro Paese e non restare assente (come ha fatto il Governo) dal tavolo di una vicenda come questa della Fiat, o peggio ancora alimentare le divisioni tra le parti sociali, ma anzi esercitare ogni iniziativa per il convergere degli sforzi dell'azienda e dei lavoratori verso un comune obiettivo di crescita e di migliore occupazione, monitorando da adesso la corretta tempistica e modalità degli investimenti promessi da Fiat.

Anche noi del Pd, lungi dal ricadere in contrapposizioni ideologiche, dovremo interrogarci: dati i tempi e la situazione che viviamo chi sono oggi i soggetti che mettiamo al centro della nostra proposta politica? Io risponderei: i lavoratori, certo, ma anche le imprese - perché se non restano sul mercato e falliscono non possono dare lavoro -. E aggiungerei che tra i più deboli oggi ci sono i precari, i giovani, i disoccupati, le piccole partite iva. C'è qualche responsabilità anche del centrosinistra se siamo arrivati a queste divisioni e disparità tra gli stessi lavoratori e quali sono le carenze del sistema che impediscono di tutelare proprio i più deboli? Perché non ci sono state mobilitazioni per i 25.000 addetti del settore edilizio che hanno perso in questi due anni il loro posto di lavoro solo in Veneto? E ancora: se è un ricatto il referendum di Mirafiori, che chiede garanzie per il pieno utilizzo degli impianti  in cambio di investimenti, come definire la posizione dei lavoratori di altre multinazionali o grandi e medie imprese che semplicemente hanno chiuso stabilimenti in Italia senza indire analogo referendum (penso - ma è solo un esempio dei tanti - al caso recente dei dipendenti della Gatorade di Silea)? Perché non ci sono mobilitazioni contro la delocalizzazione dei nostri giovani, che da tempo sono costretti a lasciare il loro Paese per avere un futuro? E per dare diritti e tutele all'esercito dei giovani con contratti a tempo determinato con corrispettivi di fame, senza garanzie previdenziali adeguate? Infine, mi chiedo: crediamo sia davvero vantaggioso per gli stessi dipendenti di Mirafiori lasciare le cose come stanno? In fondo i fatti ci dicono che l'attuale busta paga di un metalmeccanico italiano è di gran lunga inferiore a quella di un tedesco, nonostante le tutele attuali difese strenuamente dalla Fiom.

La verità è che per garantire la dignità dei lavoratori (di tutti i lavoratori) la domanda delle domande è: come far uscire l'Italia dalla bassa crescita e bassa produttività? Su questo dobbiamo confrontarci, dopo che la grande assente sulla sfida posta da Marchionne è stata proprio la politica economica ed industriale di questo Paese.

Non è più possibile oggi, dopo la crisi finanziaria ed l'enorme livello del debito pubblico raggiunto dal nostro Paese, risolvere il problema scaricando sulle future generazioni il peso di ulteriori aiuti di Stato all'industria dell'auto. La Fiat deve stare in piedi da sola nel nuovo mondo globalizzato e la via giusta da tracciare è quella già intrapresa in Germania, quella di una democrazia economica in cui la partecipazione dei lavoratori è garantita non solo nel momento del sacrificio per la difesa della competitività dell'azienda e quindi del posto di lavoro, ma anche nel momento in cui maturano i benefici derivati da quel sacrificio. Su questo al Lingotto faremo una proposta: un partito moderno e innovatore come vuol essere il Pd deve prendere atto della sfida posta anche (ma non solo) dalla vicenda Mirafiori, la scarsa competitività del nostro sistema Paese, la sua inadeguatezza ad attrarre gli investimenti di grandi imprese, anche straniere, e mettere in campo risposte serie, senza riproporre ricette e schemi ideologici che hanno radici in un passato ormai superato, quando l'economia si svolgeva all'interno del recinto degli Stati nazionali.

 

Su questi temi il Pd deve fare al più presto chiarezza per essere percepito come capace di garantire un'alternativa credibile di Governo del Paese, non solo dai nostri militanti e simpatizzanti, ma anche da coloro che ci hanno votato nel 2008 e non più nel 2010 e dagli elettori delusi dal centrodestra di Berlusconi. La democrazia italiana ha bisogno del Partito Democratico, quello che ancora molti italiani stanno aspettando. Il berlusconismo - come confermano anche le ultime vicende -sta portando la società italiana all'afasia morale, riducendo le istituzioni ad una sua proprietà privata, sta spegnendo quella fiducia carica di valori comuni che tiene insieme un Paese e gli dà la spinta per crescere. Purtroppo i dati elettorali, il contatto con i cittadini, le proiezioni dei sondaggi ci dicono che una alternativa credibile per molti italiani ancora non c'è. Il PD delineato tra il 2007 e il 2008 avrebbe potuto esserlo, mentre oggi pare ridotto alla copia sbiadita di uno dei partiti che credevamo d'esserci lasciati alle spalle. Far finta che il problema non esista non aiuta. A chi dentro il partito stigmatizza il nostro dissenso come una dannosa divisione, e ci taccia di voler remare contro, noi rispondiamo con la tranquillità che ci viene dalla consapevolezza che fuori il partito ci sono tanti cittadini che ci chiedono di provare a dare anche a loro la possibilità di scegliere una vera alternativa. È nostro dovere, per il bene del Pd e dell'Italia, provarci.

 

 

On. Simonetta Rubinato


pubblicata il 16 gennaio 2011

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