La sera di giovedì 19 luglio scorso ho partecipato, negli studi televisivi di Tv7Triveneta a Padova, alla trasmissione speciale dedicata a ricordare la figura e l'impegno del giudice Paolo Borsellino, a vent'anni dalla strage di via D'Amelio. E' stata l'occasione per affrontare il tema del rapporto tra mafia e pezzi dello Stato che, come conferma la cronaca di questi giorni, è un ‘vulnus' gravissimo per la legalità e la democrazia del nostro Paese e rappresenta l'anomalia della storia italiana rispetto a quella di altri Paesi europei di democrazia avanzata.
Basti pensare che ci sono voluti vent'anni per scoprire che la pista che portava al boss Pietro Aglieri era falsa e che quella vera conduceva a Giuseppe Graviano, capo mafia di Brancaccio (i cui boss vantavano collegamenti con i vertici di Forza Italia) e al fratello Filippo (clicca qui). E' questa la nuova verità che è emersa dalle indagini della Procura di Caltanissetta e che ha portato i magistrati a scagionare otto persone, tra le quali Vincenzo Scarantino, l'uomo-chiave dei misteri di Via D'Amelio, che a suo tempo ha falsamente confessato di essere stato uno degli artefici della strage. In realtà era solo uno spacciatore di droga e sigarette che, dopo due anni passati a dichiararsi innocente, nel 1994 confessò la sua responsabilità - ai magistrati di Caltanissetta ha riferito che lo ha fatto perché era stato torturato e picchiato dalla polizia -. Liberato nell'ottobre scorso a seguito del processo di revisione, da qualche settimana si sono perse le sue tracce (clicca qui).
Fu un clamoroso errore investigativo e giudiziario o un vero e proprio depistaggio? A questo dovrà rispondere il processo che si sta per aprire a Palermo: sono dodici gli imputati per i quali i pubblici ministeri della Procura di Palermo hanno firmato questa settimana la richiesta di rinvio a giudizio al termine dell'indagine sulla presunta trattativa tra Stato e mafia negli anni 1992-1994, anni delle stragi commesse da Cosa Nostra. Tra gli imputati cinque mafiosi - Bernardo Provenzano, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Giovanni Brusca -, due parlamentari - il deputato Calogero Mannino e il senatore Marcello Dell'Utri -, tre ex ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, oltre a Massimo Ciancimino, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e di calunnia nei confronti dell'ex prefetto Gianni De Gennaro, e all'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino per falsa testimonianza.
Noi tutti attendiamo di conoscere l'autentica verità su questi fatti, perché come ha dichiarato il Presidente del Consiglio Monti e ribadito Napolitano "non c'è alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell'accertamento dei fatti e delle responsabilità, ritardi e incertezze nella ricerca della verità specie su torbide ipotesi di trattativa tra Stato e mafia". L'esito di questa vicenda dirà della maturità democratica o meno del nostro Paese.
Per questo tra le tanti frasi del giudice Borsellino che vengono spesso citate voglio ricordarne una non molto nota: "Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare". Molte sono le cose dell'Italia che non ci piacciono: Borsellino ci insegna a non fuggire o a non rincorrere la sterile critica, ma a scendere in campo in prima persona per cambiare in meglio la comunità nazionale facendo ogni giorno il nostro dovere.